Fino all’ultima briciola #3. La storia di Sara

“Fino all’ultima briciola” è la rubrica che accoglie le storie di pazienti che hanno scelto di diventare le protagoniste di un racconto, condividendo una parte della loro vita, della loro intimità, con chi avrà desiderio, o forse bisogno, di leggere.

Ognuna di loro ha espresso la sua volontà di condividere la propria storia attraverso un consenso scritto; i nomi sono di fantasia così come l’ambientazione; i fatti sono sufficientemente  modificati per non rendere riconoscibile il protagonista e quindi per tutelarne la privacy.

Sara ha gli occhioni verdi, con i quali cattura lo sguardo.

Ha il tono di voce sempre spento mentre mi racconta la sua storia.

“ho 17 anni -dice- il periodo più bello della vita. Almeno così dovrebbe essere, invece è tutto un casino”, il primo colloquio lo apre così.

Si rivolge a noi perché sente che qualcosa non funziona più con il cibo. Durante le sedute, sul divano, prende poco spazio, non toglie la giacca, mai il cappello. Cappello che copre lunghi capelli ramati.

“Sto per compiere 18 anni,  entro nella terra di mezzo, quella che divide i bambini dagli adulti. Ma io non so se sono pronta”, mentre parla sento la sua angoscia e mi chiedo quanta paura stia provando.

Dice: “Voglio essere indipendente, lo sogno da sempre, da quando ero piccola”, le chiedo cosa sia questa indipendenza che sogna, cosa significhi per lei e mi dice che non lo sa, che vorrebbe viaggiare e non stare più in quella casa così incasinata. “Tornando alla realtà, ora ho solo paura, perché per quanto sia grande il mio desiderio di essere indipendente, il futuro mi terrorizza, probabilmente dovrò fare i conti con me stessa, conoscermi. Non sono certa di sapere chi sono. Ho un po’ paura di quello che posso scoprire”

Sara ha una sorella maggiore, che ammira molto con la quale ha un rapporto ambivalente. Come tutte le sorelle minori, probabilmente nella sua infanzia l’ha imitata ed idolatrata. Così, quando l’adolescenza di sua sorella le ha divise, lasciando venir fuori i caratteri, nei modi dirompenti e violenti che solo quella fase della vita possiede,  lei ha iniziato a perdere i suoi punti di riferimento.

Le liti in casa, quelle frasi che si dicono senza pensarci troppo, diventavano sempre di più urla nella sua testa. Sara ha iniziato a dubitare di sé.

“Una volta mi disse che ero grassa e mangiavo troppo, e così ho smesso di mangiare” dice senza scomporsi.

Continua: “Non è certamente colpa sua, lo ha sicuramente detto come si dicono tante cose tra sorelle… ma io, che proprio in quei periodi iniziavo a guardarmi davvero, a farci caso dico, ho desiderato piacerle, diventare abbastanza magra da essere alla sua altezza”.

Sara soffre di un disturbi alimentare atipico, di quelli che non riconosci da fuori.

Un giorno, guardandomi fissa negli occhi, disse: “io so di avere un problema. Ho i ritmi tutti sballati!

Quando ho sentito la parola lockdown per la prima volta ho gioito come tutti per la felicità di non andare a scuola.

Ma quando le 2 settimane sono diventate 3, e poi 4 e poi due mesi, e poi un anno… beh la felicità è sparita.

Nei primi tempi mi dilettavo, come tutti, a cucinare.

Qualche volta però mangiavo troppo, e poi stavo male. Ma non riuscivo a dire di “no!” al mio senso di fame perenne, a quella vocina che mi diceva di mangiare anche se non avevo veramente voglia, anzi ero sazia.

Arrivata l’estate  mi sono resa conto che non mi guardavo più allo specchio. C’era qualcosa di troppo.

Troppi rotoli, Troppa ciccia, Troppe cosce.

Non avevo le gambe slanciate come quelle delle mie amiche. Un giorno ho pianto, guardandomi.

Piangevo e non capivo perché.

Ho iniziato a camminare tanto, a diminuire le porzioni, PIANO PIANO.

Il secondo lockdown è stato quello in cui ho perso la  bussola. Mi sono buttata nello studio, dovevo prendere voti altissimi!

Volevo sentirmi soddisfatta di me, sempre di più. Per farlo studiavo fino a notte fonda, poi fino al mattino, poi dormivo di pomeriggio e stavo sveglia di notte… e così ho perso il ritmo normale della vita.

Ero diventata una specie di vampiro.

Un giorno, per caso, mi sono specchiata: ero dimagrita, vedevo le ossa da tutte le parti. Mi sono resa conto, all’improvviso, che con le ore di sonno, saltavo anche i pasti. Da qui alla stanchezza cronica il passo è stato breve.

Tuttavia, c’avevo preso gusto, ho continuato a saltare i pasti, alternando momenti in cui la fame mi faceva impazzire a quelli in cui non la sentivo più.

Però ho anche capito che quello che stavo vivendo, quello che stavo facendo a me stessa, non avrei potuto affrontarlo senza l’aiuto di qualcuno” Sara piange, i suoi occhi si riempiono di lacrimoni che sembra possa affogarvi dentro.

“Non ho detto nulla ai miei per mesi, era il mio segreto. Dottoressa sa perché non lo dicevo a nessuno?

Ho temuto la pietà. Mi sono cibata di ansia e paranoia, di monotonia e routine”.

Sorridendo, poi, dice: “mia madre da piccola mi diceva che avevo le ali, che sapevo volare anche da ferma”.

Lavorare con questi ragazzi è una sfida, ma anche un onore. Spesso porto con me le loro parole, le trasformo in racconti, come questo.

Sentiamo le loro emozioni, soffriamo e ridiamo con loro, proviamo ad accompagnarli in questo cammino così difficile e lungo, con umiltà e rispetto.

Rispetto per quei corpi che chiedono solo di essere visti ed amati.

Anche se il cammino è lungo, vedo le ali di Sara, che se lei le sente spelacchiate e deboli, un giorno in qualche modo, nel suo personale ed unico modo,  tornerà a volare.

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