Fame Nervosa: Cosa Dovresti Sapere
Immagina una giornata difficile al lavoro. Le scadenze si accumulano, le email non smettono di arrivare e senti crescere dentro di te una tensione che non sai come placare. Torni...
“Fino all’ultima briciola” è la rubrica che accoglie le storie di pazienti che hanno scelto di diventare le protagoniste di un racconto, condividendo una parte della loro vita, della loro intimità, con chi avrà desiderio, o forse bisogno, di leggere.
Ognuna di loro ha espresso la sua volontà di condividere la propria storia attraverso un consenso scritto; i nomi sono di fantasia così come l’ambientazione; i fatti sono sufficientemente modificati per non rendere riconoscibile il protagonista e quindi per tutelarne la privacy.
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Questa è la storia di una donna molto coraggiosa.
“Quanto mi piaceva pattinare, ballare e cantare. Ma non lo sapevo. Anzi, forse dobbiamo specificare una cosa: io non sapevo riconoscere ciò che mi piaceva da ciò che desideravo fare perché la “me perfetta” nella testa me lo imponeva. E poiché queste cose non rientravano nella lista delle cose che una ragazza perfetta può fare per diventare qualcuno nella vita, allora non andavano bene. Per inciso, le facevo di nascosto. A me stessa, ovviamente. Come se potessi nascondermi. È assurdo, lo so. Eppure accadeva.
Ricordo che da piccola amavo stare sui pattini a rotelle della mia amica più intima, la mia vicina di casa. Li usavamo nel suo cortile, io inventavo scuse di ogni genere pur di usarli al posto suo. Lei aveva tutto, era figlia di grandi imprenditori e possedeva molti giochi. E non solo. Aveva un sacco di possibilità che negli anni le avrei invidiato.
Chiesi ai miei genitori di comprarmi un paio di pattini, ma non ascoltarono mai la mia richiesta. Erano troppo presi dal lavoro, dai problemi, dal mutuo e chissà cos’altro, e quei pattini non arrivarono mai.
Così, mi resi conto che non avrei avuto niente, e ho dirottato il piacere su qualcosa che potevo fare senza l’aiuto di nessuno, ossia leggere.
La mia vicina, sempre lei, possedeva una biblioteca immensa da cui prendevo in prestito qualche libro ogni tanto. A 12 anni lessi “Lettera a un bambino mai nato” di Oriana Fallaci. Era un libro assolutamente fuori misura per me. A oggi, che ho quasi cinquant’anni, l’avrò letto venti volte, insieme a tutti gli altri libri in cui vivevo, e ancora oggi vivo, vite che non ho potuto.
Quelli che preferisco sono i libri romantici, a volte da adolescenti. Mi sembra di vivere viaggi stupendi; mi emoziono così tanto che, quando un libro mi piace particolarmente, rallento la lettura delle ultime pagine perché sono affezionata ai personaggi e non voglio lasciarli andare.
Forse sto divagando: torniamo al piacere. Credo di essere stata come congelata, e me ne sono accorta quando, qualche anno fa, ho sentito parlare un gruppo di adolescenti sulla metro. Con molta sicurezza affermavano ciò che gli piaceva e ciò che no.
Era un martedì mattina piovoso, eravamo a due fermate dalla mia; loro erano in piedi davanti a me. Avranno avuto 16 anni, qualche pelo disordinato sul viso e i denti non allineati. Un ragazzo, il più basso, raccontava di quanto amasse giocare a basket, e sottolineava con fermezza “mi piace tanto”; l’altro, dai lunghi capelli neri, rispondeva che invece amava nuotare. Diceva: “Il profumo del cloro, la sensazione di andare giù e di sentire i suoni ovattati, la adoro su tutte!” Erano decisi e lucidi nel racconto.
Così me ne sono resa conto: io non sapevo riconoscere e dire con certezza cosa mi piacesse.
Mi spiego meglio. Ricordo che c’erano cose che facevo con più voglia, come giocare a giochi da tavolo, o ballare. Ma non sapevo dire “mi piace pattinare”, ad esempio. Mi sembra di non aver mai usato il verbo piacere , che non fosse per me. E così è stato per anni.
Non sapevo nemmeno se mi piacesse il sesso. Ho avuto diverse relazioni basate su ideali, su come sarebbe dovuto essere il mio uomo, e mai sul piacere. Una volta, e questa cosa mi fa ancora sorridere dallo stupore, ho avuto una relazione molto lunga con un uomo che detestavo baciare. È assurdo, vero? Ma se non sapevo cos’era il piacere nello sport o nei giochi, come potevo comprendere cosa fosse il piacere nelle relazioni?
Avevo amici e fidanzati che non mi piacevano, con cui mi annoiavo ma pensavo che quella fosse la vita e che, semplicemente, ero io che non sapevo stare con gli altri. Sono sempre stata solitaria, e tutto questo rafforzava le mie assurde convinzioni.
Non avevo hobby. A parte leggere, chiaro. Come se una passione fosse una perdita di tempo, una distrazione dai doveri della vita. Probabilmente solo perché erano passioni diverse da quelle che i miei si aspettavano, o forse perché, cosa più probabile, nessuno in casa sapeva concedersi il piacere.
Poi un giorno, quasi 6 anni dopo l’inizio della mia analisi, mi sono resa conto che qualcosa di piacevole l’avevo fatta. Anzi, la scoperta più grande è stata che mi piacevano, e mi piacciono tutt’ora, un sacco di cose! E che adoro affermarlo.
Mi piace pattinare. Ho un paio di pattini in linea costosissimi che uso appena ne ho la possibilità. In estate fingo di abitare a San Diego, e giro per la città in pattini e pantaloncini. Probabilmente appaio ridicola, ma mi interessa così tanto ciò che provo che il resto perde di importanza.
Mi piace cantare. Mi piace fare yoga. Ho amato nuotare tanto da prendere tutti i brevetti, e ho poi scoperto che preferisco farlo solo in estate, che l’acqua mi appartiene, è vero, ma che soffro ancora un po’ di ansia e nuotare non mi rilassa molto. In compenso, mi piace galleggiare in mare. Starei lì per ore. Mi piace la sabbia, non mi piacciono gli scogli né i ciotoli.
Forse adesso dovremmo parlare anche del cibo…”
Giorgia è una donna adulta, quando l’ho incontrata aveva 43 anni. Ha un buon lavoro, è una donna curata ed elegante. Ha un bel sorriso e ride tanto. A volte ride per nascondere il dolore dentro. Non lo ha dato mai a vedere, eh.
Ma il mio compito, o forse ciò che si aspettano i miei pazienti, non è forse anche quello di vedere ciò che è ben nascosto?
Si rivolge a me per uscire dalla bulimia. Ma lei neanche sapeva di soffrirne. Sapeva di mangiare tanto… non così tanto, secondo me. Sapeva di avere qualche chilo in più.
Aveva sempre pensato, e le avevano fatto credere, che fosse una specie di difetto di volontà. Come se le mancasse la forza e la voglia di controllarsi. Ma lei si controllava fin troppo.
Ciò che non sapeva era che quei pensieri, quei brutti pensieri giudicanti che la perseguitavano, sono simili in tutte le persone che soffrono di disturbi alimentari. E che non è vero che dipende dalla volontà, e che non è sbagliato sentirsi affranti e soli. Ed affamati.
“Quello che tolleravo meno era il disagio. Anche se a pensarci neanche di quello ero tanto consapevole. Ero a disagio con gli altri, perché non pesavo mai abbastanza poco. La mia vicina di casa era magra, oltre che ricca. E si vestiva benissimo. Un pomeriggio indossò delle calze parigine con una minigonna scozzese per andare ad una festa. Avevamo 13 o 14 anni, credo. Forse meno. Stava benissimo. Aveva le gambe slanciate e lunghe. Io avevo le cosciotte di pollo.
Qualche giorno dopo corsi a comprare anche io quelle calze. Le usavano tutti, si vedevano in tv. Comprai dei collant scuri da mettere sotto, avevo una gonnellina neanche troppo corta. E misi queste benedette calze parigine al ginocchio. Erano di una maglia fitta, a coste. Non particolarmente belle. Anzi direi brutte. E mi stavano male. Le coste si dilatavano un po’ persino sul polpaccio.
Provai ad uscire di casa, ma mia madre mi fermò. “Dove pensi di andare così?”. Non risposi. “Quelle calze sai perché si chiamano parigine? Perché le usano le prostitute a Parigi. Cambiati! Se ti vede tuo padre faremo storie!”
Le arrotolai alla caviglia e uscii di casa. Ero una vera guerriera! Allontanata da casa, le ritirai su. Adesso però, oltre che grassottella, ero anche una poco di buono.
Quella sera, anziché fare un giro con una amica e sperare di incontrare il ragazzo per cui avevo una cotta terribile, entrai nella pizzeria del centro e presi un panzerotto fritto ripieno di prosciutto e maionese. E patatine fritte. E poi ne presi un altro.
Non so se sia iniziata così, probabilmente no. Ero già sovrappeso, avevo già un cattivo rapporto con il cibo. Ma quella sera si aggiunse, alla festa di critiche nella mia testa, anche la vergogna per il mio desiderare di essere attraente. Iniziò così la fine.
Per un periodo ho anche vomitato. Tanto. Per un lungo periodo. Non è stato costante, ma succedeva. Quando le cose si mettevano male, vomitavo anche tre volte in un solo giorno. Ma la maggior parte delle volte mangiavo solo fino a stare male.
Sentivo su di me lo sguardo nascosto dei miei familiari. Nessuno ha mai avuto il coraggio di dirmi qualcosa, di scuotermi. Tutti sapevano e nessun parlava.
Anche per questo ho dovuto aspettare di essere pronta e di avere il coraggio di chiedere aiuto io. E l’ho chiesto che ormai avevo passato i 40 da un pezzo”.
La parte più difficile della terapia è stata quella in cui avrebbe dovuto perdonarsi.
“Mi sono sentita in colpa così tanto tempo che non sapevo vivere senza. Mi sentivo in colpa per aver chiesto aiuto a 43 anni, ho sentito di aver sprecato la mia vita prima. Se solo mi fossi decisa prima…
Ho pianto tantissimo su questo, su quello che avrei potuto vivere se fossi stata libera dal disturbo alimentare. Ma non capivo che stavo perdendo altro tempo! Anziché concentrarmi sul presente, era un altro modo per vivere nel passato!”
Oggi Giorgia è serena, vive il suo corpo con amore. Lo cura, si cura. Si ama molto di più.
“Non sono certa che io abbia perdonato tutti, forse no. Chissà se basterà una vita per farlo. Ma sono certa di aver perdonato me stessa. Mi guardo allo specchio e dietro le rughette vedo gli stessi occhi con cui guardavo quei pattini. E così adesso pattino, felice. Mi piace pattinare. E nessuno potrà più fermarmi”.
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